Dal terrazzo dell'orologio

PHILOPOLIS. Qualche impressione di Guido

Mi piace cantare sotto la doccia durante la saponata veloce; mi piace fare il controcanto agli iperbolici acuti del “Noi vogliam Dio” durante la processione che, nel mese di maggio, sento arrivare da lontano; mi piace cantare in automobile a finestrini aperti quando percorro le stradine di campagna e nessuno mi crede ubriaco.
Con il coro abbiamo cantato in chiese povere e in sontuose cattedrali; nei circoli culturali, in ospedale e sotto i portici; salendo e scendendo le scale delle case del fascio; abbiamo cantato nei chiostri e nei cenacoli; alla Biennale di Venezia e al macello… ma su un castello: mai! E quale castello! Il principesco palazzo Pio di Carpi. Lassù, in un terrazzo a una decina di metri di altezza, proprio sotto l’orologio che guarda la piazza e sembrano immensi i suoi numeri romani.

Philopolis02 20 dicembre 2014, una data da non scordare. Philopolis, un nome da ricordare.
C’era una leggera nebbiolina quando siamo saliti sul terrazzo. Microfoni a posto, spie audio a posto, luci e fari a posto, coro a posto. Quando iniziamo a cantare è già buio. La nebbia s’è fatta fitta.
Dice William:” Seint mò che zigajola” che tradotto per i non autoctoni significa: “senti che vento freddo di tramontana: penetra dentro le ossa e mi fa venire i brividi anche se ho la sciarpa al collo”. I fari potentissimi spezzano il muro di nebbia per illuminare una danzatrice che sale in cielo con la leggerezza di una farfalla. Volteggia sospesa nel nulla, colomba vaporosa di tulle. Scende e sale come se seguisse l’andamento fluido dei nostri vocalizzi. Lame di luce bianca s’intrecciano e giocano sulle pareti del castello. Noi cantiamo e guardiamo affascinati la danza che si fa immateriale e ci dona la stessa meraviglia che provavamo da bambini quando soffiavamo sul tarassaco in fiore e gli ombrellini bianchi lievitavano nell’aria con indescrivibile leggerezza. Sentiamo la presenza della gente in piazza, intravvediamo ombre in movimento, qualche lampo di luce dei telefonini buca la nebbia come lucciole incerte sul da farsi. Folate di vento sconvolgono la nebbia che s’arrotola come fumo.

Philopolis07L’eco della nostra voce, ritardato di qualche centesimo di secondo, ci fa capire che la nostra voce vola sicura sulla piazza fondendosi con la musica sparata da potenti altoparlanti. Mentre canto cerco di visualizzare i gesti del maestro. E’ la prima volta in quarant’anni che il nostro coro canta senza la presenza fisica di Paolo, ma ne sentiamo la presenza negli attacchi della musica che ha preparato appositamente per noi. Lui c’è, fa parte della nebbia che ci avvolge, è nei silenzi e negli attacchi della musica, il suo gesto virtuale ci guida verso l’accordo finale. Si spengono i fari a cono che lacerano la nebbia densa e opaca. Usciamo al buio dal terrazzo passando sotto una bassa porticina: “Attenti al gradino”. Siamo consapevoli di aver cantato una grande cosa insieme al nostro maestro assente.

Guido