“DON GIOVANNI” al carcere di Sant'Anna

24 Novembre 2012

teatro del carcere di S. Anna

“Carta d'identità per favore, depositare i cellulari nelle cassette, attendere prego”. Il metal detector suona. È la pellicola di stagnola delle caramelle che fa contatto. “Attendere prego”.
Percorriamo un lungo corridoio, poi un altro ancora più lungo. I muri laterali sono dipinti con immagini coloratissime di grandi spazi luminosi, il mare, il cielo, i boschi, i sogni della mente. Seguiamo la guardia. Arriviamo nella sala teatro. Disadorna, il sipario pencola da una parte, i neon sono anneriti come nei pietosi teatrini parrocchiali d'una volta. Quasi buio. Prendiamo posto e iniziamo la prova.
A mezzogiorno pausa. Panino, caffè. Alle 13,45 entra il pubblico. I detenuti e le detenute del carcere S. Anna. Noi siamo quasi al buio e li osserviamo con legittima curiosità, come loro osservano noi. Sono quasi tutti giovani, alcuni giovanissimi, solo un paio di uomini hanno i capelli grigi. Sui loro visi cerchiamo inconsapevolmente i segni della loro innocenza o della loro colpevolezza come se il bene e il male lasciassero tracce del loro passaggio. Sono esattamente uguali a noi, alle guardie, a te e a me, a tutta la gente di questa terra, perché sono persone in carne, sangue e sentimenti. Quello è il pubblico del nostro spettacolo. I posti sono quasi tutti occupati. A sinistra ci sono gli uomini, a destra le donne, come usava una volta nelle chiese, ma questa è una chiesa con le guardie intorno. I visi sono tranquilli, i capelli ordinati, i vestiti eleganti scelti apposta per il matinè a teatro. Un ragazzotto ha i capelli sparati col gel, un altro una maglietta con una grande scritta: ”Free”. Con l'inizio della prima scena cessa lentamente il normale brusio.
La prima scena è dura e lunga, parla della sofferenza umana: gli attori simulano la costrizione, le manette, i lacci, gli spasmi della mancanza di libertà. Adesso c'è quasi silenzio in sala, qualche insignificante borbottio, commenti appena sussurrati, causati più dalla novità della situazione e dalla musica incalzante che dal significato dei gesti. Si avverte però una tensione accentuata, forse, dalla presenza inquietante sul proscenio di una bambolina rosa posata su un libro all'interno di una gabbia bianca. Gabbia, il gabbio, la galera. Al di là delle finestre, oltre il lucernario oscurato da improvvisati teli neri, si intravvedono pesanti grate di ferro e si sente l'oppressione dello spazio mutilato.
“È arrivata una lettera?” dicono le attrici. C'è ansia e inquietudine nelle loro frasi spezzate dall'attesa. Il pubblico risponde, interagisce con le attrici, risponde al loro posto, terminando le frasi troncate dalla rassegnazione. Quante lettere essi avranno aspettato invano tra le quattro mura della loro cella, quante volte avranno invidiato il compagno fortunato che s'illumina mentre ghermisce la lettera per timore che svanisca come un miraggio, quante volte avranno toccato quei fogli benedetti e riguardato le parole e le fotografie? Quante volte…
Un giovane con la faccia da studente liceale si muove sulla sedia, risponde all'interrogativo con lo sguardo attento come se la domanda fosse rivolta soltanto a lui e dice: sì. Non si capisce se è un desiderio o una cosa reale.
Durante lo spettacolo si sentono commenti, parole confuse, talvolta esplodono appalusi e risate, fischi da stadio quando sulla scena si giocano situazioni intriganti o particolarmente vivaci con movimenti e gestualità accentuta.
Tutto il pubblico partecipa senza esagerazione ma anche senza timidezze. Esprimono le loro emozioni senza remore, spontaneamente. In fondo siamo lì per loro e loro per noi, dunque nasce una sorta di complicità. Tre ragazze di colore in prima fila osservano le scene sorridendo continuamente. Vedo i loro denti bianchi nella penombra. Un signore dai capelli bianchi fa dei cenni con la testa per annuire, per dire che è d'accordo con Sganarello quando urla “bestiaccia” al padrone, ride quando Don Giovanni prende a calci le due gentili dame dall'abito coloratissimo e goffamente deforme; lo studente liceale s'esalta quando Sganarello sputa sullo straccio per pulire le scarpe del suo padrone. Si percepisce che gli spettatori cambiano umore col cambiare delle situazioni, com'è giusto che sia. Si fa silenzio in sala quando le attrici rinchiuse in un ring affrontano il tema della libertà, dell'affermazione di sè. Libertà è una parola che fa piangere in una prigione perché viene pensata mille volte al giorno come possono far piangere parole come amore, affetto, famiglia, lettera, vita.
Applausi alla fine. Veri, autentici, lunghi e appassionati applausi, con gridolini e fischi a metà strada tra lo stadio, il concerto rock e il loggione dell'avanspettacolo di varietà. In questa triangolazione si colloca il nostro pubblico con la sua autentica spontaneità.
“L'uomo non è buono o cattivo, ma sono le azioni che possono essere cattive” dice un ragazzo dalla voce morbida e calma al termine dello spettacolo, durante il dibattito.
“ Io è la prima volta che vado a teatro anche se sono di Palermo dove ci sono tanti bei teatri” dice un giovane appoggiato ad una colonna della sala.
Quello di S. Anna è un povero, piccolo spazio teatrale, ma gli attori sono stati veri attori e il pubblico un vero pubblico come quello delle grandi occasioni. Una signora bionda in prima fila s'aggiustava per vezzo i capelli ben curati.
Il nostri spettatori se ne vanno adagio, in fila. Salutano con grandi sorrisi, battono ripetutamente le mani agli attori e ai coristi, indugiano a guardarci da vicino; qualcuno allunga una mano per conservare un ricordo concreto, tattile. Davanti a tutti, a far strada verso le sbarre che si richiudono alla loro spalle, ci sono le guardie carcerarie che ci salutano con altrettanta simpatia.

Guido